«Stante il divario Nord-Sud provocato dai distorti meccanismi di finanziamento del sistema universitario - che viene amplificato ancora di più dalla logica di dare i contributi a chi lavora meglio - alcuni atenei “zavorra” dovrebbero chiudere».
Queste sono le parole che il presidente dell’ANAC, Raffaele Cantone, ha pronunciato ieri in occasione del convegno «Il ruolo degli Atenei tra Autonomia, Trasparenza e Legalità», svoltosi presso l’Università di Padova. Parole gravi ed inaccettabili, e che rimarrebbero tali anche qualora fossero dettate da una scarsa conoscenza del sistema universitario.
Trasformare gran parte degli atenei italiani, non solo del Sud, in “zavorre” di cui sbarazzarsi è precisamente l’obiettivo di quelli che Cantone stesso definisce giustamente i “distorti meccanismi di finanziamento del sistema universitario” introdotti dalla riforma Gelmini, amministrati dall’ANVUR e rafforzati da tutti i governi che si sono succeduti dal 2008 ad oggi. Un sistema incentrato sulle parole chiave di “merito” e “rigore”, che ha prodotto una perversa competizione tra gli atenei per accaparrarsi risorse sempre più scarse. Una competizione dove gli atenei meglio piazzati in partenza (in gran parte situati al Nord) sono gli stessi che possono avere maggiori risorse, sottraendole alle università rimaste indietro, che in questo modo non potranno mai recuperare terreno. Un pò come organizzare una gara automobilistica tra una Ferrari e una Fiat 127, e premiare la Ferrari per l’ottima performance con la benzina sottratta all’altra automobile.
Ma non basta: il presidente dell’ANAC infila una seconda “cantonata” quando, parlando della qualità delle università telematiche, invita a «mettere in discussione un tabù», quello «del valore legale del titolo di studio». Un tema che periodicamente riaffiora nel dibattito sull’università italiana, e sempre a sproposito. Se una riflessione sugli atenei telematici è auspicabile e necessaria, non si capisce come possa essere legata al valore legale del titolo di studio. È invece opportuno discutere di come le università telematiche e private abbiano accesso a risorse pubbliche pur godendo di un regime legislativo del tutto speciale rispetto agli atenei pubblici (ad esempio, i dottorandi senza borsa delle università private sono ancora costretti a pagare le tasse di iscrizione, a differenza dei colleghi delle università pubbliche).
Alle “cantonate” di Cantone, fa eco una lettera dell’ex presidente di ANVUR, Andrea Graziosi, pubblicata oggi su Repubblica. La lettera traccia ovviamente un bilancio lusinghiero dell’operato di ANVUR negli ultimi anni, poggiando però su argomentazioni fragili quando non del tutto errate.
Graziosi apre la sua lettera affermando che «le pubblicazioni di chi è assunto o promosso nelle università sono di circa il 25% migliori di quelle dei docenti in servizio, e di quasi il 30% nel meridione». L’ex presidente di ANVUR pare voler attribuire all’operato dell’agenzia un aumento della quantità o della qualità delle pubblicazioni scientifiche italiane, senza oltretutto specificare l’arco temporale al quale si riferisce: un’ipotesi di lavoro interessante, forse, ma ben lungi dall’essere dimostrata.
In questo contesto, risulta risibile l’affermazione secondo cui gli atenei meridionali sarebbero migliorati nella VQR 2011/14 rispetto alla VQR 2004/10, essendo cambiati i parametri di giudizio dell’esercizio di valutazione. Come confrontare mele con pere: un errore banale, che l’ex presidente di un’agenzia di valutazione avrebbe potuto e dovuto evitare.
A tutto ciò fa seguito un clamoroso sfondone, quando si afferma che non si sono ripetuti piani straordinari di assunzioni quando da anni assistiamo a piani di reclutamento improvvisati per RTDa e RTDb. Nella cronica carenza di risorse del sistema universitario italiano, queste misure sono ben lungi dal costituire una soluzione al problema della precarietà nella ricerca, a cui Graziosi sceglie di non dedicare una sola parola. Secondo la VII Indagine ADI su Dottorato e Post-Doc, il 90.8% degli assegnisti al loro primo contratto sarà espulso dal sistema universitario nei prossimi anni: numeri drammatici, ma sicuramente poco visibili a chi sceglie di guardare la situazione dell’università con gli occhiali rosa dell’ANVUR.
È poi rivelatrice la gaffe secondo cui «la metà dei valutati è scontenta per definizione», che getta una luce sui parametri usati dall’ANVUR (e poi mutuata dal MIUR, vedi FFABR e PRIN) per giudicare dipartimenti, istituzioni e professionisti della ricerca: metà di loro devono essere per forza inadeguati. Che direste di un professore universitario che sedesse agli esami con la convinzione assoluta che metà degli studenti del suo corso non ha studiato, ben prima di interrogarli?
Interessante la nota secondo cui «la valutazione non è democratica», in un evidente calco dal Prof. Burioni. È proprio questa, infatti, la radice del problema: l’ANVUR si è fatta interprete di un mandato politico del tutto ortogonale alla sua natura di agenzia “terza” di valutazione. Alla comunità accademica sono stati imposti, spesso senza alcuna possibilità di discussione, parametri di valutazione complessi e poco trasparenti, procedure burocratiche, regole e norme di scarsa utilità. Accompagnate alle carenza di risorse, queste misure hanno avuto un effetto equivalente a quello di un salasso su un anemico.
Ma il meglio deve ancora venire: la legge Gelmini viene definita “buona”! Una legge che avrebbe dovuto “tagliare le unghie ai baroni” e gliele ha invece affilate, che ha fatto carne da macello di una generazione di giovani ricercatori, bloccando per anni il reclutamento negli atenei italiani, che ha portato il sistema universitario italiano sull’orlo del collasso, viene definita buona, e si lodano i rettori che ne hanno sposato lo spirito. E tutto questo in un momento storico in cui non solo il mondo accademico, ma quasi tutti gli attori istituzionali sono ormai convinti della necessità di rivedere profondamente l’impianto della Legge 240/2010, per superarne almeno le più acute contraddizioni.
No, caro Graziosi: il sistema universitario italiano non è affatto in sicurezza. Se non ne è convinto, legga pure i documenti del CUN, che negli ultimi anni ha scritto nero su bianco della necessità di assumere almeno 20000 ricercatori in cinque anni per permettere agli atenei di continuare a garantire livelli accettabili per docenza e ricerca; studi i confronti tra gli atenei italiani e quelli stranieri, che hanno finanziamenti esponenzialmente maggiori; legga i dati degli ERC e dei progetti di ricerca europei portati a casa da ricercatori italiani, e controlli quanti di loro lavorano nel nostro paese.
Di questa “arte di valutare” facciamo volentieri a meno.
Pubblicato Ven, 19/01/2018 - 20:20
- Accedi o registrati per inserire commenti.