Assemblea Costituente, seduta pomeridiana di lunedì 22 dicembre 1947. Dopo 347 sedute la Costituzione della Repubblica italiana è sottoposta alla votazione finale a scrutinio segreto: la Costituente approva, con 453 voti favorevoli e 62 voti contrari.
La prima Costituzione democratica dell’Italia unita nasce in una situazione tragica, in cui il nostro Paese inizia una difficile ricostruzione dopo l’onta del nazifascismo e la sua disfatta grazie anche alla guerra partigiana di liberazione.
La nuova Carta, che pure fin da subito fu riconosciuta come non priva di difetti («nessuna costituzione è perfetta», come affermò il Presidente della Commissione per la Costituzione), rappresenta senza dubbio un inno di speranza e un documento solenne proiettato al futuro, carico di tensioni, di speranze, di promesse di cambiamento. Emblema di questo anelito di rinnovamento è l’articolo 3 nella sua parte meno conosciuta, quel secondo comma in cui si supera la concezione liberale e borghese di un’uguaglianza soltanto formale e si impegna lo Stato, con tutti i suoi organi ed enti, a contribuire attivamente intervenendo nel sistema economico, per migliorare le condizioni di vita dei cittadini eliminando - o quantomeno riducendo - le disparità esistenti.
Non si tratta neppure di un programma politico astratto e declamatorio, in quanto referente di queste norme è l’uomo “in carne ed ossa”: proprio dalla constatazione delle ingiustizie e delle illibertà che caratterizzano la società del tempo muovono i Costituenti per disegnare un progetto di emancipazione che sia in grado di condurre ad una democrazia autentica, dinamica e sostanziata dalla partecipazione effettiva delle classi lavoratrici alla gestione della cosa pubblica.
A distanza di 70 anni, il dibattito sull’attualità della Carta e sull’opportunità di una sua riforma resta molto vivace. La profonda crisi del sistema democratico rappresenta oramai l’oggetto privilegiato degli studi di scienza politica; le disuguaglianze crescono in un mondo che si presenta sempre più violento e aperto all’insorgere di fascismi, populismi e revisionismi. Se la nostra Costituzione non ha mai avuto vita facile (si pensi che già nel 1956 Piero Calamandrei descriveva la resistenza della classe dirigente dell’epoca all’attuazione delle previsioni costituzionali, nel suo pamphlet «La Costituzione inattuata»), di certo non gode oggi di ottima reputazione.
Quale può essere il significato, oggigiorno, del testo fondamentale della nostra Repubblica? Quali insegnamenti possiamo trarre dal dibattito svoltosi in sede di preparazione e redazione della Carta costituzionale, e dall’analisi delle sue matrici storiche e culturali?
Come dottorandi, dottori di ricerca, assegnisti e ricercatori precari non possiamo che guardare con preoccupazione ai processi in atto, dalla crisi dell’assetto istituzionale disegnato dai Costituenti ai ripetuti attacchi rivolti alla legittimità stessa della Costituzione, dalla progressiva dissoluzione dei legami sociali determinata da una devastante crisi finanziaria, economica e sociale allo svilimento di tanti princìpi fondamentali scolpiti 70 anni fa sulla base di idealità e aspirazioni che oggi, nell’“era della sfiducia”, spesso fatichiamo a riconoscere come nostre. La distanza tra norme e fatti, tra programmi e realtà, rappresenta una costante nella storia delle costituzioni; non è dunque solo l’inattuazione di tante disposizioni costituzionali a destare perplessità e a suscitare indignazione. Ciò che ancor più preoccupa è l’accantonamento dello spirito della Costituzione, la dimenticanza del suo valore prescrittivo, l’oblio del suo essere strumento idoneo - se non indispensabile - per una “rivoluzione democratica”.
Ciò che corre il rischio di essere dimenticato, in un mondo segnato da disuguaglianze sempre più marcate, dall’egemonia del pensiero neoliberista, dal mito della meritocrazia che giustifica la sottrazione di risorse ai settori della società che più concorrono a realizzare l’uguaglianza sostanziale perseguita dai Costituenti (istruzione, sanità, lavoro, previdenza, tra tutti), è proprio il valore critico del testo fondamentale, il suo essere un limite al potere, alle sue patologie e alle sue degenerazioni, nonché ad ogni forma di discriminazione e di sfruttamento. È contro la degradazione del sistema politico e contro l’annichilimento delle conquiste del costituzionalismo che vale ancora la pena lottare; è in nome dei valori proclamati 70 anni fa, di solidarietà, uguaglianza, libertà e partecipazione alla vita democratica, che vale ancora la pena impegnarsi per progettare un futuro degno di essere vissuto.
Pubblicato Ven, 22/12/2017 - 17:29
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