Strutture di ricerca

Il Piano propone un profondo ripensamento dell’assetto delle strutture universitarie di ricerca tramite l’ulteriore specializzazione degli atenei di piccole dimensioni e con poca varieta’ tra gli ambiti disciplinari unitamente all’ulteriore differenziazione interna degli atenei grandi e pluri-disciplinari. L’obiettivo appare quello di creare una governance della ricerca in cui gli atenei del primo gruppo “concorrono” con le strutture di ricerca interne agli atenei più grandi (ampiamente autonome) nell’affannosa ricerca del Santo Graal dell’eccellenza. A tal fine, il piano prevede che «Vengono premiate solo quelle strutture (o quegli atenei, se piccoli o mono-disciplinari) che raggiungono risultati eccellenti nelle funzioni prescelte, anziché risultati medi in tutte le funzioni» (76, c).

La visione sottostante al piano per quel che attiene alla ricerca appare ispirata dalle seguenti direttrici:

  1. scissione fra ricerca e didattica;

  2. incremento delle dinamiche competitivo-conflittuali fra strutture di ricerca a decremento di quelle cooperative;

  3. incremento del rilievo della ricerca applicata rispetto alla ricerca di base e generalista. 

Questa visione — perfettamente coerente con quella di ispirazione neo-liberista che ha animato le politiche di università e ricerca a partire dalla legge cd. Gelmini del 2010 — rischia di acuire le gravi criticità che già affliggono il sistema della ricerca universitaria in Italia e da ADI più volte segnalate.

Così, ad esempio, l’incentivo alla logica competitiva fra struttura di ricerca all’interno degli atenei di grandi di dimensioni (già in atto per effetto dei cosiddetti dipartimenti di eccellenza), oltre a sfibrare il senso di comunità di ciascun settore accademico, può essere fonte di forti discriminazioni fra i settori di ricerca sia da un punto di vista delle possibilità di lavoro stabile per i precari della ricerca che sotto quello dell’effettività della libertà di ricerca, sempre più ispirato dall’ottica dell’asservimento alle esigenze del mercato e sempre meno da quella del contributo al progresso economico, scientifico e sociale dello Stato-comunità.

In secondo luogo, l’assetto attuale è già improntato a logiche di premialità, tecnocrazia e virtuosità di bilancio: è sulla base di tali criteri che vengono, fra l’altro, ripartiti la quota premiale del FFO, i punti organico e, di solito, i fondi straordinari per l’assunzione di ricercatori. La logica insita in questo sistema — benché non dichiarata — è quella della differenziazione fra atenei di serie A e di serie B; una logica che il piano espressamente afferma di voler disattivare ma che, invece, prevedendo un incremento dei sistemi premiali e delle logiche dell’eccellenza, non farebbe che incrementare. 

Servirebbe, al contrario, una strategia che miri a: ridurre la forte sperequazione esistente fra centri di ricerca (che in linea di massima coincide col divario nord-sud) e fra settori di ricerca; ancorare le politiche della ricerca alle esigenze pubbliche del territorio (e non solo a quelle delle imprese ivi stanziate), all’offerta didattica impartita e al bisogno di lavoro stabile, ben pagato e di qualità dell’alto numero di giovani precari della ricerca che le università italiane formano.

 

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