L’università che c’è e l’università che vogliamo. Appunti sul finanziamento del sistema universitario pubblico

 

Introduzione

 

Se gli economisti riuscissero a farsi considerare gente umile,

di competenza specifica, sul piano dei dentisti, sarebbe meraviglioso.

J. M. Keynes, Prospettive economiche per i nostri nipoti.

 

L’approvazione e l’entrata in vigore della legge Gelmini ha costituito ad un tempo il compimento e la cristallizzazione normativa di un percorso di complessiva revisione del funzionamento, del finanziamento e del ruolo stesso dell’Università pubblica italiana. Dopo undici anni si è in grado di apprezzare la traiettoria ideologica che ha informato l’intervento legislativo e le sue drammatiche conseguenze per il sistema universitario italiano, per chi vi lavora, per chi vi studia e per il Paese tutto.

La nostra Università è più povera e la distribuzione delle risorse è marcatamente differenziata all’interno del sistema universitario, sia territorialmente sia dal punto di vista disciplinare. Ciò che si può osservare è una polarizzazione tra pochi Atenei ricchi, concentrati nell’Italia del centro-nord, e una serie di università ritenute di seconda categoria, così come un contrasto tra i progetti e le ricerche con un’immediata ricaduta in termini applicati e la ricerca di base, sempre più trascurata e sistematicamente definanziata.

In questo quadro, le condizioni e i percorsi di lavoro delle persone che prestano servizio nelle nostre Università sono connotate da una precarietà esasperante e da una dipendenza dai propri diretti superiori che troppo spesso sfocia in aperto abuso. I ritmi di lavoro e la pressione cui sono soggetti i ricercatori non strutturati, in particolare, destano crescente preoccupazione, come è testimoniato dalle sempre più frequenti evidenze di un deterioramento della salute mentale delle colleghe e dei colleghi precari.

Pur essendo un elemento centrale del ruolo dell’Università nella società, l’insegnamento non è rilevante ai fini della valutazione quantitativa e dei percorsi di carriera. Per questo è relegato in secondo piano e preparato nei ritagli di tempo lasciati liberi dalla ricerca e dal sempre più oneroso carico burocratico cui è chiamato il corpo docente.

La ricerca, poi, è divenuta sempre più frenetica, di discutibile qualità e rilevanza, pensata per inseguire criteri valutativi improntati alla redazione quantitativa e inflazionistica di prodotti scientifici, nonché sempre meno autonoma, legata com’è a risorse a progetto che spesso rispondono a criteri definiti in modo eteronomo rispetto alle comunità accademiche di riferimento. Le priorità di ricerca sono definite ora dai vertici ministeriali, ora da soggetti industriali privati, non necessariamente orientate al perseguimento della scienza in quanto tale, quanto piuttosto ad una monetizzazione della ricerca svolta negli Atenei e ad una sua appropriazione da parte del privato.

Fuori dall’Università, il Paese si ritrova ad essere diviso, sempre più disintegrato e spezzato nella sua dimensione sia territoriale sia sociale, con un tessuto economico sempre più sfilacciato e sempre meno capace di dispiegare, in termini aggregati e specie nella sua componente privata, un’autonoma capacità innovativa e d’investimento.

Crediamo che le questioni relative al finanziamento del sistema universitario siano centrali per capire i processi delineati sopra. È nel dettaglio delle forme burocratiche di distribuzione dei fondi, nelle previsioni stesse della valutazione, nell’assegnazione dei punti organico o nella definizione delle linee guida dei Progetti di Rilevante Interesse Nazionale che si possono trovare le fondamenta ideologiche del processo di riforma dell’Università italiana. E nei dettagli, dai dettagli, per ritornare al quadro generale, le prospettive per aprire davvero la possibilità di pensare un cambiamento.

La chiave interpretativa che abbiamo ritenuto di far emergere dalle pagine che seguono è quella dell’aziendalizzazione del sistema universitario pubblico italiano. Parlare di aziendalizzazione non significa solamente far riferimento ad un sempre più stretto dialogo tra le imprese e il mondo universitario, ad una marcata permeabilità e sensibilità di quest’ultimo alle necessità del privato, costretto com’è dal prosciugarsi dei rivoli di finanziamento nazionale, ma anche e soprattutto a una modalità di governo degli Atenei e del sistema universitario tutto. Questa modalità di governo passa per la definizione di priorità e obiettivi quantitativi, si traduce in puntuali e puntigliosi esercizi di misurazione di qualcosa di intrinsecamente incommensurabile, si esprime attraverso direttive verticistiche emesse da organi tecnici al di fuori di ogni possibile scrutinio pubblico o coinvolgimento democratico della comunità accademica tutta, si sostanzia nel potere sempre più ampio del Rettore e del Consiglio di Amministrazione in seno ai singoli Atenei. E trova compimento in quegli atti governativi che stabiliscono i programmi di ricerca dell’Università tutta attraverso sempre più pervasivi atti d’indirizzo e piani nazionali.

E nei dettagli e dai dettagli possiamo partire per rinnovare il sistema universitario. Mettendo in discussione l’autonomia amministrativa della riforma Gelmini in favore di un’autonomia vera delle comunità scientifiche nella definizione delle priorità di ricerca. Parlando di libertà di ricerca, di sicurezza lavorativa e di vita dei ricercatori non strutturati. Evidenziando le sperequazioni dei meccanismi di finanziamento e la necessità, invece, di una loro perequazione. Perché l’Università possa rappresentare davvero un elemento aggregante, capace di sanare le fratture composite che attraversano la nostra società e segnano profondamente l’Italia, costituendosi come centro di uno sviluppo civile ed economico che sappia essere pieno, stabile, sicuro.

 

Parte prima

L’università che c’è

 

1. Il Fondo di Finanziamento Ordinario

 

Il fondo di finanziamento ordinario (FFO) rappresenta l’architrave del finanziamento del sistema universitario nazionale. Il Ministero dell’Università e della Ricerca ne gestisce l’allocazione ai singoli Atenei per la copertura delle spese per attività istituzionali. Nello specifico, il fondo è deputato a coprire le spese per il personale (docente, ricercatore e non docente), le spese per la ricerca scientifica, le spese di ordinaria manutenzione delle strutture universitarie, e, da ultimo, le spese per le attività sportive universitarie. La dotazione complessiva del Fondo è restata pressoché costante negli ultimi anni in valore nominale1 , oscillando dai 7.4 miliardi del 2008 ai 7 del 2017, ma la sua entità, se raffrontata agli investimenti dei principali Paesi europei, non sembra particolarmente significativa. La Germania destina al sistema universitario 30,5 miliardi mentre la Francia ne alloca 20 (dati della European University Association). Come è possibile rilevare da fonti Eurostat, infatti, l’Italia è solo al quattordicesimo posto sui ventotto membri dell’Unione Europea per percentuale di spesa investita in ricerca e sviluppo. Secondo i dati Ocse, l’Italia destina all’Università lo 0.9% del PIL, di cui solo lo 0.6% di risorse pubbliche, fanalino di coda in Europa, con un dato inferiore del 30% rispetto alla media Ocse (Oecd, Education at a Glance, Oecd Publishing, Paris 2020, pp. 292-293.).

 

non riuscendo quindi a compensare per l’inflazione complessiva del periodo preso in esame che, ancorché contenuta al 12% secondo i dati Istat, ne ha eroso il valore reale

 

Figura 1. Andamento risorse totali destinate al FFO dal 2007 al 2021

 

Figura 2.Percentuale di spesa per ricerca e sviluppo sul totale della spesa pubblica 

(2018 - dati Eurostat, elaborazione Agi – openpolis)

 

A questa insufficienza complessiva della dotazione del Fondo e alla sua relativa contrazione si sono accompagnati significativi mutamenti nei meccanismi allocativi delle risorse. Dalla sua istituzione nel 1993 il Fondo ha infatti subito profonde e sostanziali mutazioni nel suo funzionamento. Questi cambiamenti hanno contribuito alla disparità di accesso al finanziamento tra gli Atenei del nostro Paese e all’introduzione di una logica di competitività tra i diversi poli universitari.

Il FFO nasce per essere destinato al funzionamento ordinario del sistema universitario e al finanziamento della ricerca nazionale. Il Fondo era suddiviso in due parti: una quota base, proporzionale alle spese sostenute dall’Ateneo per lo svolgimento delle sue attività istituzionali, ed una quota di riequilibrio assegnata in base alle condizioni ambientali e strutturali. Quest’ultima era destinata a quelle realtà che necessitavano di maggiori risorse per poter svolgere attività alla pari di altri e rispondeva dunque ad un principio di equità. 

Nel 2004 si ha una prima variazione dei criteri di assegnazione della quota di riequilibrio, fortemente voluta dal Comitato per la valutazione del sistema universitario (CNVSU) e dalla Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI), che inizia ad alterarne il senso perequativo originario in favore di una logica che si sarebbe poi cristallizzata, nel 2008, nella previsione della “quota premiale” in luogo della quota di riequilibrio. Questa quota è assegnata in base ad una valutazione della qualità delle attività svolte dai singoli Atenei, rispondendo dunque ad un principio di merito.

L’estensione della quota premiale, in particolare, è responsabile del progressivo divario tra alcuni Atenei, generalmente i più grandi e concentrati nel centro-nord, e molte altre realtà universitarie, più piccole e spesso concentrate al centro-sud, che hanno sperimentato una significativa riduzione dei trasferimenti nazionali, trovandosi spesso nell’impossibilità di sanare alcune obiettive debolezze nello svolgimento delle proprie attività istituzionali, perpetuando così un circolo vizioso che le avrebbe ulteriormente penalizzate. Inoltre, i parametri di definizione della qualità della ricerca tendono a premiare la ricerca applicata, favorendo quei territori dove un partenariato tra pubblico e privato innovativo si possa effettivamente dare.

Questo definanziamento strutturale della ricerca si riflette, inevitabilmente, anche in una estrema disparità di trattamento contrattuale, che si può misurare in due rispetti: da un lato, nel confronto con il settore privato; dall’altro, con gli altri Paesi europei. Ciò che emerge da un simile esercizio è che i dottorandi e i giovani ricercatori in Italia sono soggetti a condizioni contrattuali e salariali manifestamente inadeguate rispetto a quelle prevalenti nel settore privato, che prevede retribuzioni notevolmente più alte, scatti salariali più frequenti e diritti del lavoro consolidati. Parimenti, se consideriamo le condizioni di lavoro nei principali Paesi europei, è evidente il diverso trattamento salariale dei dottorandi e dei ricercatori di Francia o Germania: solo in quest’ultima, a titolo d’esempio, lo stipendio minimo mensile di un ricercatore post-dottorale, definito a livello federale, è di circa 2,400 euro.

Questi aspetti non sono solo indice di un paese che investe poco e male sulla ricerca, ma anche di un’incapacità di vedere nella ricerca un valore aggiunto per lo sviluppo del sistema Paese, non solo ristretto al punto di vista industriale, ma soprattutto come volano di sviluppo sociale.

 

2. Il paradosso dell’eccellenza: i meccanismi allocativi tra quota base e quota premiale

 

La quota premiale del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), prevista inizialmente in misura non superiore al 7% dell’intero ammontare, ha visto una rapida crescita negli anni a seguire, andando quindi a caratterizzare drasticamente la vita e il lavoro dei singoli Atenei. 

La previsione normativa per l’anno 2020 prevede una quota premiale pari a circa il 28% dell’intero FFO (DM 442 del 10/08/2020). Andando più nel dettaglio, si possono notare i differenti indicatori e sistemi di allocazione che hanno determinato la ripartizione di tale contributo tra i singoli atenei: il 60% viene dato dai risultati della Valutazione Qualitativa della Ricerca (VQR), il 20 % risponde alle politiche di reclutamento degli anni 2017-2019 e infine il 20% sulla base della Valorizzazione dell’Autonomia Responsabile (VAR)2.

La VQR è una procedura gestita dall’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) volta a misurare i risultati della ricerca accademica e universitaria. Un gruppo di esperti valutatori (GEV) nominati dall’ANVUR e distinti per area scientifica procede all’esame dei prodotti sottomessi alla loro attenzione tenendo conto dei risultati di un apposito algoritmo. Alcuni settori disciplinari non si prestano a un esame computerizzato e richiedono quindi l’intervento di valutatori esterni. La VAR prevede invece una serie di indicatori prestabiliti in merito all’autonomia dei singoli Atenei.

 

Questa logica premiale guida anche il finanziamento ai cosiddetti Dipartimenti di Eccellenza, instaurato dalla Legge 232 del 2016 (Legge Finanziaria del 2017). Vengono individuati, a cadenza quinquennale e sulla base di indicatori volti a misurare la qualità della ricerca prodotta e dello sviluppo accademico, 180 Dipartimenti che andranno a suddividersi un budget annuale di circa 271 milioni di euro.

Le politiche di finanziamento della ricerca appena descritte dovrebbero garantire il raggiungimento dell’eccellenza accademica, ma contribuiscono invece all’affermarsi di un risultato paradossale. Tale paradosso determina la cristallizzazione delle attuali relazioni di potere tra i vari Atenei a discapito dell’avanzamento della ricerca e della conoscenza. In altre parole, a discapito dell’eccellenza accademica che si dice di voler perseguire.

La distribuzione di finanziamenti ai vari Atenei sulla base di parametri quantitativi per stabilire il raggiungimento di determinati valori preventivamente fissati su base nazionale, non tiene conto delle specificità di ogni singola realtà universitaria. Si riconduce il tutto a un insieme di dati uniformi capaci di essere omologati e classificati ( S. Cingari, ‘Il mito dell’eccellenza nell’Università italiana’, ROARS Return on Academic Research and School, 14 Luglio 2021,  https://www.roars.it/online/il-mito-delleccellenza-nelluniversita-italiana/ ).  L’eccellenza diventa quindi la superiorità all’interno di una scala predeterminata di valori (F. Giardini, ‘Eccellenza’, in F. Zappino, L. Coccoli, M. Tabacchini, ‘Genealogie del presente – Lessico politico per tempi interessanti’, Milano, 2014, pp.95-103), fattore su cui basare l’assegnazione di diritti e privilegi. L’implementazione di una simile ottica nel contesto accademico legittima un’evidente sperequazione nel finanziamento pubblico ai vari Atenei: le Università “eccellenti” vengono premiate in sede di distribuzione della quota premiale del FFO, a differenza delle altre che non raggiungono i livelli auspicati in termini di produttività scientifica. La scarsità di risorse destinate al settore dell’istruzione e della ricerca viene così legittimata con una diminuzione dei finanziamenti per le Università ritenute inefficienti (F. Nasi, ‘L’Italia è ultima in Europa per spesa in istruzione, condannata a una società ingiusta e analfabeta’, The Vision, 25 Novembre 2021, https://thevision.com/attualita/italia-investimenti-educazione/).

Il risultato di tale politica è il mantenimento dello status quo e l’esacerbarsi di disuguaglianze sistemiche già esistenti. Gli Atenei con maggiori disponibilità economiche potranno investire ancora più denaro per risultare più performanti in sede di valutazione e aumentare il distacco competitivo rispetto alle altre Università, costrette a veder sempre più ridotte le proprie possibilità di fare ricerca e offrire servizi di didattica. Questa disparità risulta evidente quando si osserva che solamente il 14% dei dipartimenti di eccellenza individuati dalla Legge Finanziaria del 2017 si trova al Sud Italia (UnRest-Net, ‘I dipartimenti di eccellenza’, https://www.unrest-net.it/i-dipartimenti-di-eccellenza/). Si comprende a tal proposito il divario tra Atenei del Nord e del Sud Italia in termini di disponibilità di risorse per l’attrazione di nuovi ricercatori: il Rapporto Svimez (Associazione per lo Sviluppo del Mezzogiorno) del 2020 certifica che le Università del Centro-Nord hanno reclutato 2,41 ricercatori di tipo B ogni 10mila abitanti nel periodo 2015-2019, a differenza degli 1,58 assunti degli Atenei meridionali nel medesimo lasso di tempo (Rapporto Svimez del 2020, https://www.agenziacoesione.gov.it/news_istituzionali/rapporto-svimez-2020/ ).  Questa disparità ha delle conseguenze sulla mobilità interna e sul tessuto sociale dell’intera nazione: più del 25% degli studenti universitari meridionali studia in un Ateneo del Centro-Nord (Rapporto Svimez del 2017, http://lnx.svimez.info/svimez/il-rapporto/).  I giovani abbandonano il meridione alla ricerca di migliori opportunità formative e professionali in altre zone del Paese e tale flusso migratorio contribuisce a impoverire un territorio già in difficoltà economica e sociale.

L’attuale sistema di finanziamento della ricerca accademica, incentrato su un’ottica premiale, non contribuisce all’avanzamento del sapere e al miglioramento della società. Favorisce infatti un sistema caratterizzato da disuguaglianze strutturali che ha come unico obiettivo il raggiungimento di determinati valori e indici di produttività che accomunano l’Università a un’azienda che deve ottenere specifici livelli di fatturato. Il diritto alla realizzazione sociale e culturale (art.3) e il diritto allo studio (art.33), pur essendo costituzionalmente garantiti, vedono quindi limitata la propria applicazione materiale da questioni economiche e territoriali.  Le attività di ricerca si piegano a mere esigenze congiunturali di raccolta fondi e rifiutano un approccio strutturale e programmatico volto al lungo periodo. In altre parole, si fa ricerca pensando a come risultare performanti in ottica di ripartizione della quota premiale. Un simile approccio costringe i ricercatori, specialmente coloro non ancora strutturati, a mutare costantemente i propri interessi di studio per “rincorrere” le esigenze di produttività scientifica stabilite a livello nazionale. Occorre perciò svincolare il finanziamento alla ricerca accademica dall’ottica aziendalista e volta alla produttività che permea le attuali politiche nazionali in materia. Le modalità di distribuzione delle risorse devono tenere conto delle specificità dei singoli Atenei e dei luoghi in cui sono stabiliti per permettere così un avanzamento del sapere organico e strutturale su tutto il territorio italiano.

 

3. I punti organico: la piramide rovesciata della gerarchia accademica

 

I Punti Organico (PO) sono un tema cruciale per il futuro degli atenei pubblici italiani poiché rappresentano la disponibilità in capo a ciascuna università per reclutare nuovi docenti o per gli scatti di carriera di quelli già in forze. Disciplinano quindi il tasso di ricambio del personale; tuttavia, il turn-over è stato deliberatamente fissato dal ministero al di sotto della soglia del 100%. Nonostante ciò, dal 2012 le singole università possono adottare tassi di ricambio del personale differenziati, a seconda della propria situazione di bilancio, generando significative sperequazioni (questo nuovo meccanismo allocativo dei PO vede la sua base nella misura del costo del personale a carico dell’ateneo, oltre ad altri costi, in relazione alle entrate provenienti dall’FFO e dai contributi studenteschi, secondo la formula: Costi a carico dell’ateneo / (FFO + contributi studenteschi).  

Infatti, ciò ha portato le realtà con maggiori risorse finanziarie a poter aumentare il personale e a consentire avanzamenti di carriera non possibili per gli Atenei finanziariamente più deboli. L’aver collegato i punti organico alla quota del fondo di finanziamento ordinario – i cui meccanismi di allocazione sperequativi sono stati già descritti –, si è tradotto in un deterioramento complessivo delle possibilità assunzionali delle Università più deboli (per approfondire, si veda: http://www.flcgil.it/rassegna-stampa/nazionale/i-criteri-dei-punti-organico-una-discussione-difficile-ma-indispensabile.flchttps://www.miur.gov.it/facolta-assunzionali). 

Inoltre, l'inclusione delle tasse studentesche nel metodo di determinazione dei punti organico rappresenta un altro elemento critico, che di fatto traduce il numero degli iscritti dei singoli Atenei nella leva principale per poter sostenere la stabilizzazione, il rinnovo e la carriera del personale docente e ricercatore. Dunque, un Ateneo dovrebbe ‘spendersi’ per reclutare quanti più studenti possibile o optare per un aumento dei contributi studenteschi, in una logica di competizione i cui tratti perversi sono evidenti: non stupisce infatti che fra il 2008 e il 2015 il gettito della contribuzione studentesca è aumentato del 33% nel Mezzogiorno, del 24% al Nord, e del 17% negli atenei del Centro (UDU, 2018). Questo determina la presenza di veri e propri vincitori tra gli Atenei delle aree più ricche, dove risiedono famiglie più abbienti, che si contrappongono a sconfitti da aree del Paese più fragili o marginali.

 

Secondo i dati di Cerosimo et al. (2018), si nota come i punti organico siano stati usati prettamente per avanzamenti di carriera e in misura minore per nuove assunzioni, mentre la mobilità inter-ateneo è praticamente nulla. Dal punto di vista dei ricercatori più giovani, spesso precari, ma che contribuiscono in maniera determinante all’attività scientifica e didattica delle università, possiamo trarre facilmente l’immagine di una piramide rovesciata. Infatti, anche in base all’area geografica in cui lavorano, raramente i ricercatori precari avranno la possibilità di essere assunti se il numero di associati e ordinari in forza al singolo Ateneo ha già raggiunto un livello difficilmente sostenibile per quella realtà. Le prospettive di carriera dei ricercatori e ricercatrici che si affacciano alla carriera accademica si presentano come una piramide rovesciata, dato che hanno minori possibilità di stabilizzazione e salari inferiori rispetto ai professori e ricercatori strutturati che invece hanno prospettive di carriera ben più rosee.

 

4. Gli altri finanziamenti e i piani straordinari

 

I criteri che regolano l’assegnazione dei fondi stanziati per i progetti PRIN (Progetti di Rilevante Interesse Nazionale) presentano problemi analoghi a quanto già esposto a proposito della quota premiale e del rapporto che questa ha con l’ANVUR. Detto altrimenti, parametri apparentemente scientifici e neutrali, svelano il proprio rovescio ambiguo e parziale: in particolare in relazione all’Impatto sociale del progetto si evidenzia, ancora una volta, la priorità assunta dall’innovazione tecnologica e dalle applicazioni industriali, decretando, di fatto, una subordinazione delle discipline non applicate che o si adattano, forzando le proprie metodologie e gli obiettivi di ricerca, a dei criteri di certo discutibili, o sono destinate a non vedersi mai assegnati dei fondi. In aggiunta a ciò, è bene sottolineare che, più in generale, la durata massima dei progetti PRIN è triennale e anche questo aspetto privilegia l’immediatezza dei risultati – e dei conseguenti profitti, laddove, lo si è detto in più punti, la logica aziendalistica sembra essere la via maestra – a discapito della mediazione necessaria per una ricerca approfondita e di più ampio respiro. Un ulteriore criterio risulta quantomeno opaco, ovvero la definizione dell’eccellenza del Principal investigator e del gruppo di ricerca che si impegnano a portare avanti il progetto presentato: anche in questo caso la voce ‘eccellenza’ che vorrebbe proporsi quale garanzia, si rivela, al contrario, più orpello che concreto parametro verificabile.

 

Non diverso si presenta il quadro delineato dai criteri che regolano i fondi POR-FSE, ovvero i Programmi Operativi Regionali del Fondo sociale europeo che, per quanto riguarda l’università, spesso finanziano borse di dottorato e assegni di ricerca, o contratti a tempo determinato e di apprendistato. Si tratta di finanziamenti spesso vincolati e destinati alle scienze applicate e, in ogni caso, non risolutivi rispetto al precariato della ricerca, ma, al contrario, favorevoli tanto a un’interscambiabilità dei soggetti destinatari dei progetti attivati, quanto alla logica estemporanea e sempre a breve termine che li regola. 

Infine, anche a proposito dei finanziamenti previsti dal PNRR, l’interazione tra impresa ed enti pubblici sembra essere il cardine attorno a cui si definiscono gli assi di intervento del Piano. Riconoscendo la debolezza del tessuto industriale italiano e la necessità di innovare i processi e i prodotti delle piccole-medie imprese per migliorarne la posizione competitiva in seno all’UE, il Piano si concentra sul trasferimento tecnologico e sulla ricerca applicata, favorendo forme di partenariato tra pubblico e privato, così come l’attivazione di dottorati e contratti di ricerca in consorzio tra enti di ricerca e imprese, che prevedono progetti vincolati e lunghi periodi di lavoro prestato in azienda. Sembra dunque che l’intenzione dell’Esecutivo sia rimediare alle carenze strutturali del sistema industriale italiano piegando l’Università pubblica alle sue necessità e trasformandola in un laboratorio di scienze applicate ausiliario e accessorio al mondo produttivo, peraltro su progetti di breve durata, finanziamenti episodici, reclutamenti massicci di personale precario e a tempo determinato cui non si dà una prospettiva di strutturazione. En passant, resta inteso che non si vuole pregiudizialmente avanzare una critica a tutto campo al dialogo tra impresa e mondo universitario, dialogo invero necessario, ma nella rispettiva, piena autonomia e diversità di ruoli.

 

Lo scenario che ne deriva rimarca delle costanti che i tre tipi di finanziamento, apparentemente distanti e distinti tra loro, mettono in luce: nessun accorgimento previsto per evitare il precariato delle ricercatrici e dei ricercatori, massiva dipendenza dalle industrie, progetti di breve durata, criteri non chiari per stabilire i vincitori, scarsa (laddove non nulla) considerazione delle discipline di base.

 

Parte seconda

L’università che vogliamo

 

1. Per un’università pubblica e democratica

 

L’articolo 33 della Costituzione pone le basi dell’autonomia universitaria, dichiarando che «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». Il concetto di autonomia, così come è stato declinato negli anni, tuttavia, non è esente da problematiche o contraddizioni.

L’Università, secondo la legge 168 del 1989, ha piena autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile. L’autonomia amministrativa dell’ente universitario è ribadita anche dalla legge 240 del 2010, cd. Gelmini, che ampia ulteriormente i margini di libertà in cui un Ateneo finanziariamente solido può agire per meglio definire la propria offerta formativa e i propri piani di ricerca, in una prospettiva di competizione cui si è fatto spesso cenno in quanto sopra. Tuttavia, resta da chiedersi se sia effettivamente autonomo un sistema universitario che deve rispondere in modo sempre più pressante ai vincoli burocratici definiti dal Ministero o che, nell’attuale quadro di finanziamenti sempre più scarsi, si trova a dover piegare le proprie linee di ricerca alle priorità definite ora dal governo ora dalla burocrazia europea, oppure ad inseguire i desiderata del sistema produttivo del Paese. Inoltre, la sempre più marcata precarietà che caratterizza il personale degli Atenei fa sì che la loro autonomia e libertà intellettuale sia significativamente compromessa: la dipendenza materiale non può generare indipendenza scientifica, dovendo i giovani ricercatori destreggiarsi tra i criteri della valutazione quantitativa e dell’abilitazione scientifica fissati dall’ANVUR e le commissioni disciplinari per gli avanzamenti di carriera.

Nel corso degli anni, ed in particolar modo dall’approvazione della legge Gelmini, abbiamo assistito a una continua e precisa opera di demolizione dell’autonomia universitaria, specie tramite l’uso degli strumenti di finanziamento ordinari e soprattutto straordinari. Alla luce dei risultati di queste linee politiche, riteniamo doveroso riportare il sistema universitario nel solco tracciato dalla Costituzione, ossia una università pienamente e veramente autonoma, democratica e il più scientificamente inclusiva possibile, che non sia soggiogata dall’egemonia culturale delle scienze applicate e del trasferimento tecnologico.

Ciò che auspichiamo è un’Università improntata su quella che si potrebbe definire “creazione del sapere”, un sapere fine a se stesso, lontano da meccanicismi economici e di produttività. L’Università non è quindi concepita come un soggetto deputato alla creazione di valore, misurato attraverso un attivo monetario alla fine di ogni esercizio di bilancio, bensì un ente pubblico che faccia del libero perseguimento della conoscenza il suo obiettivo principale.

Come è stato rilevato più volte, non si vuole certamente proporre che l’università diventi autoreferenziale, che non si confronti con la società e con il mondo produttivo, che escluda a priori collaborazioni con il privato, o che finanzi con liberalità ogni progetto, senza alcun riguardo per una solida gestione finanziaria. Al fine di rispondere al compito civile e sociale che la Costituzione le riconosce e assegna, l’Università può e deve essere plurale nelle idee e nelle competenze, con un’equilibrata attenzione tra ricerca di base e applicata, umanistica e scientifica, in una vera e piena autonomia delle comunità di ricerca.

La via per raggiungere questa autonomia decisionale e di ricerca non può che essere duplice: da un lato, rafforzando sia la democrazia interna delle università, attraverso un rinnovato ruolo dei Senati accademici nel governo degli Atenei, sia il grado di autonomia complessiva del sistema dagli enti di valutazione nazionali; dall’altro, attraverso un rifinanziamento strutturale del comparto, che sappia dare alle università lo spazio di manovra di bilancio per essere indipendenti nei fatti rispetto alle linee di progetto estemporanee definite in sede ministeriale e nei confronti dei partner privati.

 

2. Per un’università di tutti

 

L’università per sua natura non può seguire le dinamiche aziendali: il prodotto ricerca difatti può e deve essere passibile di errore e sbagli, perché solo così si può dare un avanzamento della scienza. Nell’università che vorremmo, la distribuzione dei fondi dovrebbe tenere conto della libertà della ricerca, dovrebbe essere garante della sostenibilità di tutte le università. I fondi devono giovare alla ricerca e non limitarla o costringerla in alvei angusti.

Spesso, come soluzione al sottofinanziamento in cui versa l’università italiana, si propone di rafforzare le “eccellenze”, lasciando al loro destino quelle realtà o dipartimenti che non rispondono ai criteri stringenti per definire i campioni nazionali. Questo modello presenta due profili di criticità. In primo luogo, esso perpetua l’idea che l’attività universitaria consista solo nella ricerca, mentre il ruolo degli Atenei quali poli didattici e di confronto con il territorio in cui sono insediati resta centrale: concentrare i finanziamenti su poche realtà indebolirebbe la capillarità dell’università italiana, da un lato depauperando interi territori, dall’altro concentrando gli studenti su poche Università che faticherebbero a reggere una crescita dimensionale ulteriore. In secondo luogo, l’eccellenza nasce solo in un tessuto fertile, un tessuto che non è costituito da soli vertici ma soprattutto da una solida base. Al venir meno di questo tessuto diffuso, le eccellenze non sarebbero che cattedrali nel deserto, come si è visto nel caso dell’esperimento francese dell’Università di Paris-Saclay.

Pensiamo inoltre che sia necessario dare ulteriore importanza all’allocazione dei fondi ai giovani ricercatori: l’accesso ai fondi, in questo caso, vorremmo fosse ancora di più svincolato dalla valutazione della qualità del singolo individuo, sempre più artificiale e poco informativa del reale valore, ma rendere centrale la proposta di ricerca, dando così maggiore fiducia e propulsione a chi, con le sue idee, contribuisce alla crescita degli Atenei.

 

3. Per un’università che non sfrutti

 

Nel dibattito pubblico, in Italia, la figura del ricercatore è essenzialmente ignorata dai più: è come se l’Università fosse concepita come un luogo nel quale si passa dall’essere studenti all’essere direttamente Ordinari. Le figure dei lavoratori e delle lavoratrici della ricerca sono oggetto di attenzione mediatica solo quando, esasperate, salgono sui tetti degli Atenei o mettono in campo agitazioni importanti presso illustri centri di ricerca. In questo quadro, è facile talvolta dimenticare che in realtà il concreto lavoro nelle nostre università è per lo più in capo proprio a ricercatori e ricercatrici precarie: durante il dottorato e dopo il dottorato tutto ciò che si pubblica concorre a migliorare e sostenere le valutazioni degli atenei e la sostenibilità dei dipartimenti. Tale ruolo sociale deve essere riaffermato con forza e vi devono corrispondere adeguate riforme del percorso di carriera. 

Attualmente, le condizioni materiali di lavoratori e lavoratrici della ricerca concorrono tutte ad ostacolo del buono svolgimento di questa funzione. I tempi del dottorato di ricerca, significativamente più brevi di altri paesi europei, sono spesso troppo contenuti per assicurare una ricerca dottorale di alta qualità. L’intermittenza conseguente al dottorato, tra periodi di disoccupazione, assegni e altre forme contrattuali transitorie fa sì che si abbia una discrasia tra la necessaria continuità e serenità richiesta per un percorso di ricerca approfondito e rigoroso e le tempistiche della sostenibilità individuale del coinvolgimento del lavoratore in tale percorso. Tale intermittenza si accompagna spesso a compensi non in linea con il reale costo della vita delle città nelle quali è necessario risiedere, unitamente alla condizione di mobilità prolungata e di pressoché inesistente possibilità di programmare il proprio futuro sul piano geografico ed affettivo-familiare. 

In questo senso, riteniamo necessario riconoscere il ruolo fondamentale dei lavoratori e delle lavoratrici precarie della ricerca, assicurando loro, nel massimo grado possibile, condizioni di serenità e continuità materiali. Ricercatori e ricercatrici hanno diritto, fin dagli esordi della carriera accademica, a contratti di lavoro che assicurino le tutele riconosciute ad altre figure professionali, obiettivo conseguibile tramite l’eliminazione della miriade di forme contrattuali attualmente in vigore a favore di un’unica forma di subordinazione che preveda una retribuzione adeguata, piena contribuzione pensionistica, congedi parentali e per forme di cura familiare, piena attuazione dei diritti del lavoro sanciti costituzionalmente.