L'ADI replica a Repubblica sul rapporto AlmaLaurea: solo alcuni dottori di ricerca «guadagnano bene», e dipende dalla famiglia

A seguito dell'articolo dal titolo "I dottori di ricerca guadagnano bene, ma sono  sempre meno", pubblicato il 15 settembre scorso su Repubblica, abbiamo inviato una replica al direttore del quotidiano per fare luce su alcuni aspetti del rapporto Alma Laurea di cui riteniamo sia stata data un'interpretazione eccessivamente ottimistica e non pienamente aderente alla realtà dei fatti.


Roma, 19 settembre 2022

 Egregio Direttore,

Le scriviamo per rappresentarLe lo sconcerto che l’articolo dal titolo “I dottori di ricerca guadagnano bene, ma sono sempre meno”, apparso il 15 settembre scorso sul quotidiano da Lei diretto, ha suscitato nella categoria che rappresentiamo.

Riteniamo che la prospettiva offerta dall’articolo in questione non solo non renda giustizia alla realtà dei fatti circa le prospettive e le condizioni lavorative dei dottori di ricerca e dei precari del sistema universitario italiano, ma travisi significativamente i dati emersi dallo stesso rapporto AlmaLaurea.

Innanzitutto, ci preme sottolineare come il dottorato, pur rappresentando un momento di alta formazione orientata alla ricerca, sia anche un lavoro: nei tre anni di durata del dottorato, i dottorandi contribuiscono alle attività di ricerca del proprio dipartimento, scrivono e pubblicano articoli, tengono lezioni, esercitazioni e tutorati, prendono parte a commissioni d’esame e si impegnano in attività di divulgazione e di trasferimento tecnologico. Essenzialmente, il dottorato è un momento di formazione-lavoro. Questa peculiarità è riconosciuta in tutto il resto d’Europa attraverso un inquadramento da dipendente dell’università, con un contratto subordinato, e non, come nel nostro Paese, come uno studente beneficiario – occasionalmente – di una borsa di studio, peraltro di entità non sufficiente a mantenersi autonomamente, come i risultati della X Indagine ADI sul dottorato dimostrano.

È proprio l’impossibilità di mantenersi autonomamente che emerge prepotentemente dai dati demografici del rapporto AlmaLaurea, che conferma come l’estrazione sociale dei dottori di ricerca sia sostanzialmente elitaria: oltre il 30% di essi, si legge nel rapporto, proviene da contesti socialmente elevati, contro il 25% dei laureati di secondo livello, un dato che sale al 38,7% nell’area disciplinare delle scienze economiche, giuridiche e sociali. La famiglia conta, ma per un motivo ben diverso da quello suggerito nell’articolo: avere una famiglia benestante alle spalle è necessario per avere quel necessario complemento al magro importo della borsa di dottorato, nonché per poter beneficiare di una rete di protezione nei periodi di disoccupazione tra un assegno di ricerca e l’altro.

Infatti, per quanto il 90,9% dei dottori di ricerca affermi di avere un’occupazione a un anno dal conseguimento del titolo, è interessante andare ad analizzare la composizione e la qualità di questa occupazione. L’8,5% dei dottori di ricerca svolge un’attività autonoma, il 23,8% è assunto con un contratto a tempo indeterminato, il 33,8% ha preso un assegno di ricerca, l’8,4% si sostiene mediante una borsa di studio, il 20,4% dichiara di essere assunto con un contratto non standard, comunque a tempo determinato. Ciò che emerge da questi dati è sì un tasso di occupazione sostanziale, ma solo meno di un quarto dei rispondenti dichiara un contratto a tempo indeterminato, mentre la maggior parte dei dottori di ricerca è inquadrata in forme a tempo determinato, parasubordinate, atipiche o intermittenti.

Su tutte, predomina l’assegno di ricerca, fattispecie introdotta dalla legge Gelmini e divenuta la forma-tipo di impiego post-dottorale in un sistema universitario sottofinanziato e anemico, con cui sono inquadrate, secondo i dati correnti, più di quindicimila persone. L’assegno è una forma di impiego caratterizzata da scarsa durata (tipicamente un anno, rinnovabile se vi sono fondi) e intermittenza: secondo i dati raccolti nell’ambito della nona indagine condotta dalla nostra Associazione, il 27% dei percettori di un primo assegno di ricerca devono affrontare un periodo di disoccupazione prima dell’assegno successivo, una percentuale che sale al 33% al sud; questi periodi di disoccupazione nel 24% dei casi possono superare l’anno. Inoltre, la maggior parte degli assegnisti di ricerca è poi espulsa dal sistema universitario dopo uno o più assegni, tanto che meno del 10% di chi abbia preso un primo assegno di ricerca viene infine stabilizzato con l’unica forma contrattuale a tempo indeterminato del sistema universitario pubblico, quella del professore associato. Il sostegno della famiglia d’origine diventa quindi indispensabile per poter perseguire una carriera segnata da un tale grado di instabilità lavorativa, economica, anche geografica: la precarietà dell’assegno non è che lo specchio della precarietà diffusa del sistema-Italia.

Per quel che riguarda i dati sul reddito, se la retribuzione mensile media netta è di 1.784 euro, il dato risulta fortemente sbilanciato dalle retribuzioni dei dottori di ricerca in Scienze della vita (che dichiarano 1.966 euro di retribuzione mensile netta): i dottori di ricerca in ambito medico rappresentano un caso a sé stante, in quanto il dottorato è generalmente conseguito in parallelo o in seguito alla specializzazione e, data la carenza di professionisti nel settore, queste figure trovano immediatamente un inquadramento ospedaliero, spesso a tempo indeterminato e (giustamente) ben retribuito. Tuttavia nell’articolo si omette che i dottori di ricerca in scienze umane non dichiarano più di 1.482 euro netti, e che essi, assieme ai dottori di ricerca in scienze economiche, giuridiche e sociali, sono soggetti più degli altri a una disparata congerie di collaborazioni volontarie non retribuite.

Il dottorato di ricerca si fa per passione: più di otto colleghe e colleghi su dieci dichiarano di aver scelto questo percorso per accrescere la propria formazione culturale e scientifica. È una passione che anima tutte e tutti noi, che ci motiva e ci sostiene nel percorso dottorale e nel passare da un lavoro all’altro dopo il dottorato. È il modo in cui possiamo portare il nostro contributo al nostro Paese. Vogliamo però che questo nostro lavoro sia pienamente riconosciuto come tale, che sia retribuito dignitosamente, che sia caratterizzato da percorsi di carriera lineari, non precari, stabili. Il PNRR non fa nulla di tutto ciò, proponendo degli interventi estemporanei e disorganici, ora con la previsione delle borse di dottorato di interesse nazionale (raddoppiando quasi il numero di dottorandi all’anno: resta da chiedersi cosa faranno tutti quei dottorandi, stante la scarsa capacità di assorbimento delle università, del pubblico impiego e del tessuto imprenditoriale italiano), ora con fondi mirati a sostenere progetti di trasferimento tecnologico, che non riguardano che una minima parte del sistema universitario italiano. È necessario invece rifinanziare stabilmente il sistema universitario tutto attraverso un chiaro indirizzo di politica economica in parte corrente, sostenendo così un paradigma di crescita diverso rispetto a quello su cui sembra essersi instradato il nostro Paese: un paradigma la cui chiave è quella del benessere diffuso, dell’innovazione tecnologica, dello sviluppo sociale e culturale.

RingraziandoLa per l’attenzione che vorrà riservare a questa nostra, Le porgo, Direttore, i più cordiali saluti miei personali e di tutta l’Associazione.

 

Per l’Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca in Italia,

Il Segretario Nazionale

 Luca Dell’Atti, PhD