Niente si fa con niente: manifesto per un lavoro di ricerca stabile e dignitosamente retribuito

Niente si fa con niente

Manifesto per un lavoro di ricerca stabile e dignitosamente retribuito

I. Introduzione

Nell’Italia post-pandemica, la ricerca continua a vivere una tensione fra tecnicizzazione dei saperi e delle decisioni di politica accademica e aziendalizzazione dell’università: se da un lato il ruolo sociale della ricerca viene osteggiato e bandito dalla ratio decidendi nazionale e locale, assieme a democraticità, pubblicità e inclusività delle istituzioni accademiche e della possibilità stessa di accedere al ruolo di ricercatore/trice, dall’altro assistiamo all’appalto del finanziamento della ricerca, se non della sua stessa programmazione, agli interessi del capitale privato per i quali il ricercatore/trice, specie se giovane, è costretto a disegnare il proprio percorso di vita all’insegna dell’intermittenza fra una posizione precaria e l’altra, alla competizione per l’accaparramento di risorse scarse e primariamente orientate alla soddisfazione di interessi corporativi.

Come si delineerà in seguito, il trionfo di tale visione – avutosi con l’approvazione della Legge n. 240 del 2010 (la c.d. “Legge Gelmini”), col sostanziale avallo di ampi settori del mondo accademico – ha spinto l’ADI a immaginare, in un percorso pubblico di condivisione con ricercatrici e ricercatori (principalmente dottorande/i e assegniste/i), nuovi strumenti per superare i nodi più critici dell’architettura aziendale e precarizzante figlia della Legge Gelmini: gli istituti che regolano il c.d. preruolo universitario e il finanziamento dell’intero comparto della ricerca. Le conquiste reali ottenute a ogni livello grazie all’impegno collettivo dell’ADI, che da quasi venticinque anni è sola nel rappresentare la categoria dei dottorandi/e e dottori/resse di ricerca in Italia – dagli aumenti delle borse di dottorato all’introduzione ed estensione a un anno dell’indennità di disoccupazione DIS-COLL per dottorandi/e e assegnisti/e – non possono che inserirsi in una visione globale che superi il sistema attualmente in essere, ponga fine al vortice di precariato che caratterizza il lavoro universitario e affermi con forza la necessità di un lavoro di ricerca stabile e dignitosamente retribuito.

Il riordino delle carriere voluto dalla Legge Gelmini, abolendo la fattispecie del ricercatore a tempo indeterminato, introduceva due diverse figure di ricercatore a tempo determinato, quella di tipo A e quella di tipo B. L’RTDa, di durata triennale e senza alcun diritto ad una stabilizzazione in ruolo al termine del contratto, si qualificava come contratto a termine per rispondere alle necessità temporanee delle Università, mentre l’RTDb, che prevedeva alla fine del percorso la chiamata all’associatura, era riservato alla programmazione ordinaria della pianta organica delle Università. Da ultimo, la riforma introduceva l’assegno di ricerca. Questo impianto si è configurato come un meccanismo estremamente precarizzante, volto allo sfruttamento e, in seguito, all’espulsione sistematica di giovani ricercatrici e ricercatori dal sistema universitario italiano. Difatti, se l’RTDb è rimasto un porto sicuro a cui pochi hanno potuto approdare, l’RTDa, a maggior ragione negli ultimi anni a seguito di una serie di piani straordinari di reclutamento a valere ora sui fondi PON ora sui fondi PNRR, è diventata una posizione non solo e non tanto di fragile inquadramento, quanto dalle prospettive assolutamente vaghe e inconsistenti: a fronte di tre anni di lavoro, sovente non resta in mano che un pugno di mosche. Nondimeno, l’essenza più profonda del meccanismo di precarizzazione venutosi a determinare dalla combinazione tra la legge Gelmini e il consistente taglio dei finanziamenti al comparto università di quella stagione politica, si ha nella disciplina degli assegni di ricerca.

Da fattispecie marginale nelle intenzioni del legislatore, negli ultimi dieci anni l’assegno di ricerca è divenuta la forma consueta di inquadramento del lavoro di ricerca post- dottorale. Questa preferenza per l’assegno di ricerca è legata a doppio filo alle politiche di finanziamento che hanno caratterizzato l’ultima decade del sistema universitario pubblico. Infatti, dato il combinato disposto tra il marcato definanziamento del comparto universitario e le modalità di allocazione delle risorse, sempre più frequentemente attraverso fondi a progetto di breve respiro, l’assegno, che consiste in un rapporto di lavoro parasubordinato e dal costo decisamente ridotto per il datore di lavoro – figurando come esente Irpef e soggetto solamente agli oneri previdenziali –, è apparso come il modo più conveniente per sostenere le attività di ricerca e di didattica degli Atenei. Inoltre, l’assegno aveva la non secondaria caratteristica di costituire un rapporto fortemente gerarchico tra il professore titolare del fondo a progetto su cui l’assegno era stato bandito e l’assegnista stesso, rinforzando quel ruolo di gatekeeping che un certo ordinariato ha sempre trovato particolarmente attraente, pur con tutte le conseguenze del caso sull’indipendenza dei giovani ricercatori, sulla qualità della loro ricerca e, sovente, come portato immediato di tali condizioni di vita e di lavoro, sulla loro salute mentale.

Questa inflazione di figure precarie e intermittenti, veri e propri disposable academics (accademici usa-e-getta), per riprendere il titolo di un articolo del The Economist del dicembre 2010, ha fatto sì che, ad oggi, si contino quasi sedicimila assegniste e assegnisti nelle Università italiane (15.701 al 2021, dati MUR), cui si devono aggiungere le ulteriori circa cinquemila posizioni bandite recentemente a valere sulle linee di finanziamento collegate al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. A titolo di paragone, i professori ordinari sono appena quindicimila, mentre, complessivamente, tutte le figure strutturate (ordinari, associati e i residuali ricercatori a tempo indeterminato) sono poco più di quarantasei mila. Inoltre, mentre la percentuale di donne tra gli assegnisti è pari al quarantanove per cento, essa scende molto rapidamente al trentotto per cento tra tutti gli strutturati e addirittura al ventisei per cento tra gli ordinari, delineando un quadro di profonda disuguaglianza di genere nell’Università italiana, in cui le donne sono relegate agli inquadramenti inferiori e alle forme di lavoro più precarie. Infine, l’uso dello strumento dell’assegno di ricerca è fortemente dipendente dal settore: le dinamiche di sfruttamento, precarietà e intermittenza peggiori si verificano nei dipartimenti umanistici, che a causa del definanziamento prolungato e ormai cronico non lasciano spazio a percorsi di stabilizzazione, se non per una ridottissima minoranza.

Precarietà, subordinazione, dipendenza, intermittenza: le caratteristiche dell’assegno di ricerca compendiano le caratteristiche su cui si fonda il sistema universitario italiano, segnato da un marcato e pervicace sottofinanziamento nonché da profonde disuguaglianze territoriali e disciplinari, che trova nello sfruttamento delle giovani ricercatrici e dei giovani ricercatori l’unica risposta possibile per tenere insieme quest’edificio pericolante. Queste cesure, d’altronde, ben si accompagnano alle profonde fratture che segnano la società italiana, cui l’Università, in ultima analisi, non è né può essere estranea. Ciò che si delinea è, insomma, un’abdicazione, di fatto, al ruolo del sistema universitario come elemento fondamentale dell’architettura sociale della Repubblica, come soggetto fondamentale di produzione e condivisione pubblica di saperi e conoscenze, che metta in essere quella capacità di riflessione e autoriflessione senza cui un Paese può dirsi perduto.

La riforma del pre-ruolo introdotta in sede di conversione del decreto legge n. 36 del 2022 non è la pietra filosofale. Il quadro ordinamentale che essa introduce non rappresenta la soluzione ai problemi strutturali del sistema universitario italiano. Purtuttavia, essa rappresenta una prima misura risposta, ancorché parziale, insoddisfacente e a tratti contraddittoria, alle legittime rivendicazioni delle precarie e dei precari della ricerca di questi ultimi anni, nell’intento di limitare gli spazi di precariato e di ridurre quegli spazi di incertezza che si ripropongono con puntualità angosciante ad ogni snodo di carriera. Nel prosieguo, dopo una prima ricostruzione sull’istituto dell’assegno di ricerca, si tratteggiano contenuti e limiti della riforma del preruolo, con particolare riguardo al finanziamento delle posizioni da contrattista di ricerca e da Ricercatore in Tenure Track, per dare poi spazio alle nostre rivendicazioni per una università pubblica, democratica, in grado di accogliere pienamente saperi e persone.

II. Nessuna nostalgia dell’assegno di ricerca: i dati dell’indagine ADI

La realtà precedente alla riforma, com’è stato già anticipato nell’introduzione, era tutt’altro che rosea: l’assenza di diritti e il precariato estremo portavano a una vita instabile e all’impossibilità totale di pianificare la propria vita personale e il proprio futuro familiare. La IX Indagine ADI del 2019, che aveva lo scopo di indagare il mondo dell’assegno di ricerca, ha restituito una fotografia a tinte fosche del sistema creato dalla legge 240/2010: al 40% degli assegni, infatti, seguiva un periodo più o meno lungo di disoccupazione, durante il quale molti ricercatori e ricercatrici continuavano a lavorare gratuitamente.

Il susseguirsi di assegni, borse di ricerca e altre forme di precariato di anno in anno, con i relativi periodi di disoccupazione, rendeva impossibile qualunque pianificazione: il 59% dei circa 1300 rispondenti all’indagine ha dichiarato di aver rinunciato ad avere figli o rinviato la decisione, in attesa della stabilizzazione, mentre molte risposte hanno evidenziato l’impossibilità di ottenere un mutuo a causa della mancanza totale di assicurazioni economiche, dovendo fare affidamento sul lavoro di partner o genitori come garanzia. Tutto questo risulta ancora più grave considerando che la fascia di età degli assegnisti era compresa, in maggioranza, tra i 30 e i 35 anni, un momento di vita in cui spesso si ha la stravagante pretesa di cercare una maggiore stabilità nelle proprie prospettive di vita. La mancanza di capacità di pianificazione è legata a doppio filo alla natura estremamente temporanea e intermittente dell’assegno di ricerca, ma anche al fatto che le ore settimanali di lavoro, secondo i dati dell’indagine, superavano le quaranta per più di metà tra le assegniste e gli assegnisti.

Lo sfruttamento estremo del lavoro di questa ampia fascia di precariato, assunta a intermittenza con contratti brevi e quasi privi di tutele, ha rappresentato e tuttora rappresenta una realtà diffusa nel sistema universitario italiano: molte funzioni di ricerca, organizzazione e didattica sono interamente dipendenti dal lavoro di assegnisti e assegniste, che sopperiscono alla carenza di ricambio e al blocco del reclutamento spinti dalla chimera di un posto da RTDa e, in prospettiva, da RTDb. Come evidenziano i dati delle passate indagini ADI, solo una percentuale irrisoria ha potuto raggiungere l’RTDb e l’associatura: meno del 10% di chi ha assunto un primo incarico quale assegnista di ricerca, infatti, è stato poi stabilizzato in ruolo quale professore associato. A fronte di un ampio e diffuso sfruttamento di questo inquadramento para-subordinato, dunque, si sono avute delle prospettive quantomeno effimere quanto alle effettive possibilità di fare del lavoro di ricerca nelle università italiane la propria scelta professionale.

III. La riforma del preruolo: descrizione, ratio e limiti del testo

La riforma del pre-ruolo – introdotta dall’art. 14 del DL 36/2022 (come modificato in sede di conversione) – rappresenta il primo intervento in materia di reclutamento universitario in netta discontinuità con la Riforma Gelmini. Le due principali modifiche hanno riguardato l’eliminazione degli assegni di ricerca – sostituiti dai nuovi contratti di ricerca – e la ridefinizione della disciplina in materia di ricercatori a tempo determinato.

Entrambe le novelle rappresentano un importante passo avanti verso il miglioramento delle condizioni del precariato della ricerca. In particolare, i nuovi contratti di ricerca assicurano fin dalle prime fasi della ricerca post-dottorale l’estensione delle garanzie offerte da un rapporto di lavoro, contrariamente agli assegni di ricerca che – in virtù della loro natura ibrida – comportavano significative lacune sul piano delle tutele. Rispetto alla retribuzione, l’individuazione come parametro di riferimento, ai fini del trattamento economico minimo, della figura del ricercatore confermato a tempo definito di cui al CCNL Ricerca (ulteriormente migliorabile in sede di contrattazione collettiva) consente anche ai contrattisti/e di poter aspirare a importi adeguati e proporzionati alla quantità e alla qualità del lavoro svolto.

Per quanto concerne l’introduzione del nuovo ricercatore a tempo determinato con tenure track (cd. RTT), il superamento della figura precaria del cd. ricercatore a tempo determinato di tipo A – per il quale non era prevista alcuna modalità di stabilizzazione al termine del contratto – rappresenta un passaggio significativo per ridurre il periodo di incertezza nel percorso accademico. A partire dal terzo anno sarà infatti possibile, su richiesta dell’interessato e a seguito del conseguimento dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (come già accadeva per i cd. RTDb), essere chiamati come professore di seconda fascia senza dover affrontare un nuovo concorso pubblico.

A fronte di un’impostazione generale positiva che recepisce la necessità di una profonda destrutturazione del modello precarizzante di reclutamento definito dalla Riforma Gelmini, la recente riforma del pre-ruolo presenta diverse problematiche che in sede attuativa rischiano di inficiarne le potenzialità. Sul fronte dei contratti di ricerca (il cui costo è significativamente superiore a quello dei previgenti assegni in ragione non solo del miglior trattamento economico dei contrattisti, ma anche dei maggiori oneri fiscali in riferimento a tale nuova figura professionale) la contestuale imposizione di un tetto di spesa pari alla «spesa media sostenuta nell'ultimo triennio per l'erogazione degli assegni di ricerca» finisce per impossibilitare Atenei ed enti di ricerca a bandire un numero di posizioni pari a quelle dapprima previste per gli assegni.

Tale circostanza appare ad oggi ulteriormente aggravata da una disciplina transitoria confusa, che risulta aver ulteriormente ostacolato Atenei ed enti di ricerca nell’implementazione delle nuove previsioni, e da forti ambiguità sull’utilizzabilità delle borse di ricerca (forma di finanziamento della ricerca estremamente precaria e priva delle seppur minime garanzie già previste per gli assegni, tra cui in primis le tutele previdenziali) come sostitute degli assegni. Se la riforma – nel tentativo di evitare una eterogenesi dei fini tale da determinare un incremento, e non una riduzione, della precarietà all’interno del mondo della ricerca – sembrava inizialmente aver introdotto il divieto di bandire borse di ricerca in favore di dottori di ricerca (si veda il comma 6 vicies-ter dell’art. 14 del d.l. n. 36 del 2022), il Ministero dell’Università e della Ricerca, così come diverse Università italiane, sembrano essersi ormai orientate nel senso del mantenimento di tale facoltà, con il rischio che la borsa rappresenti lo strumento con cui mantenere lavoro sottopagato e ricattabile all’interno della ricerca italiano.

Più in generale l’assenza di una riforma organica – che affrontasse con la necessaria incisività il cronico sottofinanziamento dell’accademia italiana – e un quadro normativo non chiaro rischiano nella realtà di porre la ricerca italiana in condizioni deteriori rispetto a quelle precedenti alla riforma. Soltanto un cambio di rotta profondo e tempestivo potrà consentire di evitare il rischio che questa riforma porti all’esodo di migliaia di giovani ricercatrici e ricercatori dal mondo accademico, con danni nei confronti non soltanto di un’intera generazione di precarie e precari ma di tutto il Paese.

IV. Il nodo del finanziamento e l’Università che vogliamo

Il contratto di ricerca rappresenta quindi un avanzamento significativo dal punto di vista dell’inquadramento lavorativo rispetto all’assegno di ricerca. Tuttavia, per questa stessa ragione, come è già stato notato, esso è più costoso: laddove un assegno costava all’ente, al lordo delle trattenute previdenziali, circa 24 mila euro per una retribuzione netta dell’assegnista pari a 1.425 euro al mese, il nuovo contratto di ricerca, comprensivo degli oneri fiscali e previdenziali, stando ai tabellari dell’ultimo contratto collettivo nazionale per il comparto ricerca, costa poco meno di 40 mila euro l’anno, prevedendo un netto a favore del percipiente stimabile in circa 1.770 euro al mese (Tabella 1 in Appendice). Data la natura biennale del nuovo contratto di ricerca, il suo costo complessivo può essere stimato in circa 80 mila euro.

Tabella 1 – Stima dei costi lordi e netti e delle retribuzioni incrementali derivanti dal contratto di ricerca rispetto all’assegno di ricerca
A) Contratto di ricerca
  Voci Aliquote Totale (euro) Mensile
a) Stipendio lordo tabellare   39.943,17  
b) Contributi a carico del datore di lavoro 24,20%  9.666,25  
c) Contributi a carico del lavoratore 8,80%  3.515,00  
d) Stipendio lordo IRPEF (a-b-c)   26.761,92 2.230,16
e) IRPEF 23% fino a 15.000 23% 3.450,00  
f) IRPEF 25% fino a 28.000 25% 2.940,48  
g) Detrazioni IRPEF per lavoro dipendente   873,12  
h) Oneri finali IRPEF (e+f-g)   5.517,37  
i) Oneri complessivi (b+c+h)   18.698,61  
j) Netto percipiente (d-h)   21.244,56 1.770,38
B) Assegno di ricerca
  Voci Aliquote Totale (euro) Mensile
k) Assegno di ricerca lordo percipiente   19.367,00 1.613,92
l) Contributi a carico dell’assegnista 11,68% 2.262,07  
m) Assegno di ricerca netto percipiente (k-l)   17.104,93 1.425,41
n) Contributi a carico del datore di lavoro 23,35% 4.522,19  
o) Oneri complessivi (l+n)   6.784,26  
p) Assegno di ricerca lordo (m+o)   23.889,19  
C) Mutati oneri per gli enti e per la finanza pubblica
  Voci   Totale Var. percentuali
q) Incremento del costo lordo (a-p)   16.053,98 67,20%
r) Di cui maggiori oneri previdenziali (b+c-o)   6.396,99  
s) Di cui maggiori oneri fiscali (h)   5.517,37  
t) Incremento della retribuzione netta (j-m)   4.139,62  24,20%
u) Maggior onere per la finanza pubblica (q-s)   10.536,61 44,11%
Nota: il costo del contratto di ricerca è stimato a partire dal dato del CCNL ricerca, come da ultimo rinnovato, per la parte economica, l’11 novembre 2022, prendendo a riferimento il lordo tabellare del II livello, prima fascia stipendiale. I dati sugli oneri previdenziali sono aggiornati alle ultime circolari INPS.

Stante questo maggior costo, la disposizione di conservazione della spesa introdotta dal decreto costituisce a tutti gli effetti una tagliola, che, stante il costo dei contratti di ricerca rispetto agli assegni, potrà portare ad una contrazione del numero di posizioni ordinarie di più di 6.000 unità: un aumento del costo annuo di una posizione dell’ordine del 67%, infatti, come calcolato in Tabella 1, comporta una riduzione complementare dei posti. La spesa totale di 375,23 milioni annui può supportare 15.700 assegni di ricerca, ma solo 9.400 contratti di ricerca; inoltre, altre posizioni sono a rischio a causa della necessità di stanziare immediatamente i fondi per l’intera durata biennale del contratto, laddove l’assegno aveva durata meramente annuale. Alle posizioni perse per via della clausola di conservazione della spesa sono da aggiungersi le ulteriori cinquemila posizioni che verranno meno quando termineranno le linee di finanziamento legate al PNRR. La relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del decreto, relativamente all’articolo in questione, dichiara candidamente come «l’aumento del costo unitario per singolo contratto non si traduce in un maggior onere per le università, gli enti pubblici di ricerca o comunque per il bilancio dello Stato», stimando una contrazione del numero attuale degli assegnisti di ricerca in servizio presso le università (che il Parlamento, curiosamente, ritiene essere circa 13 mila, nonostante i dati aggiornati del MUR siano disponibili anche a loro) fino raggiungere a regime il numero di circa 7.000 unità. La relazione infatti chiosa: «gli effetti della disposizione e del nuovo e più alto importo della singola posizione potranno avere l’effetto di una riduzione del numero assoluto di soggetti titolari delle stesse, contribuendo a una più precisa e funzionale canalizzazione delle risorse, anche al fine di ridurre le pressioni per ulteriori interventi normativi tesi alla stabilizzazione dei soggetti che avessero goduto di tali contratti». Insomma, meno persone e con minori capacità rivendicative, in nome di un richiamo esoterico ad un incomprensibile principio di efficienza e funzionalità, vero feticcio ideologico di queste parodie degli incubi di un contabile.

Questa falcidia di giovani ricercatrici e ricercatori è inaccettabile. Non si stanno solo interrompendo percorsi di vita e di carriera di persone che avevano e hanno dedicato se stesse alla ricerca, allo studio, alla didattica, a fronte di una retribuzione dall’entità quantomeno discutibile, ma si sta parimenti disperdendo una coorte di persone altamente formate e preparate, dedite al servizio dell’Università italiana e quindi del Paese tutto. Persino in una logica economicistica una simile misura ha il sapore dello sciupo, della dissipazione, altro che una «precisa e funzionale canalizzazione delle risorse». Da una prospettiva più schiettamente umana, invece, questa clausola di conservazione della spesa assume tutti i contorni di un intollerabile affronto: dopo aver sfruttato per un decennio abbondante una manodopera altamente specializzata attraverso una forma di inquadramento parasubordinata e sottopagata per dare continuità a progetti di ricerca e attività didattiche altrimenti impossibili, stante il definanziamento dell’Università italiana, si ritiene di sbarazzarsene e di assestare il sistema su di una dimensionalità ben più ridotta. È sostanzialmente una dichiarazione di resa, la resa alla logica che ha fatto dell’Università l’ultima ruota del carro, un inutile orpello di un paese in inarrestabile decadenza culturale, sociale, intellettuale, economica. Di fronte alla necessità di rifinanziare con coraggio il sistema universitario italiano per rispondere alle sfide imperative cui ci chiama la nostra società e questa tormentata contemporaneità, si sceglie la tagliola, la riduzione dimensionale, l’elitarizzazione de facto dell’Università.

ADI chiede con forza un’inversione di rotta. La misura straordinaria che proponiamo consiste in un aumento sostanziale del finanziamento ordinario per poter coprire i nuovi contratti di ricerca, che permetta di mettere in sicurezza almeno parzialmente le posizioni a rischio a causa della tagliola imposta dal tetto di spesa e, in prospettiva, dalla fine dei finanziamenti PNRR. La nostra richiesta è di disporre un aumento del fondo di finanziamento ordinario del sistema universitario pari a 504 milioni di euro per il prossimo biennio (252 milioni annui a regime), vincolandolo al finanziamento di 6.300 nuove posizioni di contratto di ricerca sul biennio, mantenendo il totale delle posizioni pari a 15.700. Sebbene una tale cifra non arrivi a coprire gli assegnisti e le assegniste finanziate dal PNRR, questo stanziamento, unitamente ai fondi già esistenti, andrebbe a stabilizzare la situazione sul numero di assegni di ricerca attualmente in essere, con una piena contrattualizzazione di tutti gli assegnisti di ricerca in servizio.

Quanto all’impatto complessivo della manovra sui conti pubblici, è inoltre da tenere in debita considerazione che una parte degli oneri aggiuntivi di un contratto rispetto a un assegno sono dovuti al fatto che quest’ultimo figura come esente IRPEF. Ne segue che parte dell’importo lordo del nuovo contratto di ricerca, al netto di esenzioni e detrazioni, rientra nella fiscalità generale, configurandosi non unidirezionalmente come una maggiore spesa, ma anche in un aumento contestuale degli introiti della fiscalità generale e risolvendosi, per le finanze pubbliche nel loro complesso, in una partita di giro. Difatti, ciò che emerge dalla stima dei mutati oneri per gli Enti e per la finanza pubblica riportati in Tabella 2 è che, a fronte di un costo annuo lordo ulteriore, a regime, di 252 milioni di euro per trasformare gli attuali 15.700 assegni ordinari in contratti di ricerca, tenuto conto dei maggiori introiti fiscali derivanti dalla contrattualizzazione, l’aumentato impegno per la finanza pubblica può essere quantificato in circa 165 milioni di euro. In questo senso, la nostra richiesta di stanziare 504 milioni per la stabilizzazione di tutti gli assegnisti di ricerca costituisce, per la finanza pubblica nel suo complesso, un impegno netto di 330,85 milioni.

Tabella 2 – Impegni di finanza pubblica per 15.700 contratti di ricerca
 Costo annuo a regime di 15.700 contratti di ricerca 627.107.769,00 €
 Maggiori oneri annui lordi rispetto a 15.700 assegni di ricerca 252.047.415,35 €
 Maggiori introiti fiscali annui 86.622.634,89 €
 Maggiori oneri annui al netto dei maggiori introiti fiscali 165.424.780,46 €

Da ultimo, per quanto un tale intervento trovi la sua ratio nella necessità di non espellere migliaia di giovani ricercatrici e ricercatori dal sistema universitario, non si può non nascondersi l’obiettivo ultimo di un meccanismo di reclutamento sano: favorire la stabilizzazione delle figure precarie del sistema universitario italiano. Le posizioni a tempo determinato, come i contratti di ricerca, non sono che un palliativo temporaneo ad un problema che richiede un sostanziale aumento delle posizioni in tenure track. Parallelamente alla stabilizzazione degli assegnisti di ricerca, chiediamo dunque il finanziamento di 1.200 posizioni RTT aggiuntive per il 2023 e il 2024, le quali, aggiungendosi alle altrettante 1.200 posizioni che sono coperte dalle attuali dotazioni finanziarie, permetterebbero di stabilizzare una parte di ricercatori e ricercatrici esperte, attualmente inquadrate in posizioni precarie e a termine quali gli assegni di ricerca e gli RTDa. La stabilizzazione di queste figure ridurrebbe ulteriormente i posti persi in seguito all'aumento dei costi dovuto alla riforma e alla fine del PNRR. Tenuto conto del costo annuale di una posizione RTT, l’aumento del fondo di finanziamento ordinario necessario a coprire questa linea d’intervento è stimato in 360 milioni di euro.

L’aumento del fondo di finanziamento ordinario dovrà essere necessariamente vincolato alla copertura di posizioni di contratto di ricerca e RTT al fine di evitare la dispersione del finanziamento su altri capitoli di spesa: per quanto un aumento generalizzato del Fondo di Finanziamento Ordinario sia non solo auspicabile, ma urgentemente necessario, per riportare la spesa italiana per università e ricerca in linea con la media dei Paesi OCSE e dotare i nostri Atenei e i nostri centri di ricerca della necessaria infrastruttura di ricerca, la messa in sicurezza dell’impianto della riforma del pre-ruolo non può essere lasciata alla discrezione dei singoli Atenei: è in capo al decisore politico la responsabilità di definire la lotta alla precarietà una priorità di spesa.

Con cifre che, stando al conto della Pubblica Amministrazione a legislazione vigente e ai saldi prospettati per la prossima manovra, non rappresenta che una percentuale irrisoria della spesa corrente, si può fare un investimento serio e concreto per dare un primo abbrivio a una riforma che, senza un tale stanziamento, si risolverebbe nell’espulsione di migliaia di giovani ricercatrici e ricercatori dal sistema universitario italiano. Non è parimenti ammissibile evocare lo spettro delle borse di ricerca in risposta alla situazione venutasi a creare a seguito di una riforma senza copertura finanziaria. È ora di decidere che fare dell’università italiana, con la consapevolezza che niente si fa con niente: se vogliamo che la ricerca sia parte del futuro del nostro Paese e, anzi, contribuisca a definirlo, è ora di metterci le risorse necessarie.

 

ADI - Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca in Italia